mercoledì 30 aprile 2008

La via della penna e della spada

Quella che definisco la “democratizzazione dei mezzi” se da un lato ha offerto a chiunque l’opportunità di esprimersi, dall’altro ha sovraffollato un campo d’azione nel quale prima ci si chiamava per nome. Nella moderna babele in cui ci muoviamo abbiamo rinunciato all’identità e alla riconoscibilità in nome dell’omologazione, ci siamo lasciati plagiare dal “comune senso del pudore”, ma anche da tutto ciò che di “comune” riusciamo a captare nell’aria. Il clichè, il deja-vu quando va bene, è il solo ingrediente che può garantire se non il successo quantomeno la visibilità, e questo indipendentemente dal settore in cui operiamo. Libri tutti uguali, film tutti uguali, programmi tutti uguali, tutto tutto uguale. Sarà un problema di mancanza di idee, di mancanza di coraggio, o di una simultanea carenza di entrambe le cose, sta di fatto che il panorama culturale con cui dobbiamo confrontarci è desolante quanto una finestra spalancata sul Kalahari. E nonostante tutto questo sembra ancora il migliore dei mondi possibili.
Percorsi alternativi sono ancora praticabili, ammesso che non vi spaventi la possibilità di una passeggiata in solitaria, ma come nei trekking anche per l’editoria (e per l’arte in generale) vale una sola regola fondamentale: chi abbandona il sentiero battuto rischia di perdersi nei boschi.
L’imitazione allora, la citazione per i più colti, il remake per gli esterofili, può aiutare chi scrive a incontrare le simpatie (e i piani economici) di un editore lungimirante, ma per gli altri, per i duri e puri della “penna e della spada” per dirla alla Mishima, la strada sarà impervia e inevitabilmente in salita. Per loro, per noi, per voi, ho solo pillole amare da dispensare, pillole che non curano (siamo malati incurabili, non ricordate?) ma che possono lasciare in bocca un sapore di verità, e un retrogusto agrodolce che sa un po’ di speranza.
Non ci sono ricette miracolose, non ci sono parole magiche da recitare per arrivare dove non siamo ancora riusciti ad arrivare, dove forse non arriveremo mai, ma talvolta fare chiarezza può servire a ridimensionare il rancore e la rabbia (non la gastrite purtroppo), oltre che le pretese dei millantatori e dei finti eroi, e sebbene per ogni libro stampato ce ne saranno sempre troppi che resteranno rinchiusi nei cassetti, o nel cestino della spazzatura degli editori, la consapevolezza di un malessere condiviso può aiutarci a non smettere di fare ciò che ci piace. Scrivere.

lunedì 21 aprile 2008

LIVE ACTION MOVIE: CARTONI ANIMATI IN CARNE E OSSA

Utilizzo questo post per raccogliere tutte le informazioni (tutte quelle che riesco a trovare quantomeno!) su un fenomeno cinematografico attualissimo, e cioè la “febbre da cartone animato” che pare abbia contagiato i filmmaker di mezzo mondo. Forse per esplorare nuovi orizzonti, o più probabilmente per sopperire al decadimento contenutistico delle sceneggiature degli ultimi tempi, sono sempre più le produzioni che adattano per il grande schermo storie tratte dai cartoni animati e dai fumetti (dagli anime e dai manga, nel caso dei corrispettivi made in Japan), e lo fanno sostituendo i disegni e i colori con attori in carne e ossa, oltre che con un’abbondante spruzzata di pixel per rendere omaggio allo strapotere della CGI.
Per ragioni di spazio sorvolerò sulle pellicole già sufficientemente
pubblicizzate (quindi niente Batman, zero Iron Man, e categoricamente nada Spiderman), e focalizzerò l’attenzione sui rumors riguardanti i live action di matrice orientale, se non altro per derivazione dei contenuti.
Iniziamo con un progetto rimasto al palo per troppo tempo che riguarda
Lupin III. Sebbene già negli anni ’70 ci sia stato un tentativo naif (a essere buoni) di trasportare su pellicola, e con attori veri, le vicende del fumetto di Monkey Punch (Lupin III - strange psycho-kinetic strategy, aka: Rupan sansei - Nenriki chin sakusen) è da qualche anno che si mormora di un nuovo adattamento per il cinema delle vicende del ladro gentiluomo, della conturbante Fujiko (aka Margot), di Jigen, e di Goemon, che nella prima pellicola invece era latitante. Per ora (ma la notizia è in giro dal 2006) si sa solo che il produttore Gerald R. Molen (Jurassic Park, Shindler's List) sta(va) lavorando al progetto con la WhiteLight’s… staremo a vedere. Nel frattempo, perché forse da quelle parti ci si stanca prima di aspettare, la filippina GMA Network ha messo in onda il teledrama ispirato al personaggio di Monkey Punch. Pare sia stato il più grande evento televisivo in Filippina, (nonché la prima conversione di un cartone in una soap opera), ma io di Lupin ho visto davvero poco! Qui il trailer.
Attualissimo, invece, e in fase di lavorazione già avanzata, è il film tratto da Dragon Ball, il cartone creato da Akira Toriyama che ha praticamente monopolizzato i palinsesti della TV “per ragazzi” (ma non solo). Anche in questo caso, come per Lupin III, c’è stato un primo live action a dir poco grossolano (Dragon Ball - il film, Taiwan) che risale al 1989, anni luce rispetto a quanto si sta facendo per il nuovo adattamento. Produttore del film, per la 20th Century Fox, è il genio comico di Stephen Chow (Shaolin soccer, Kung fu hustle, CJ7) che ha affidato la parte di Goku al giovane attore canadese Justin Chatwin (La guerra dei mondi). Il nome di maggior peso nel cast, però, riguarda il personaggio del maestro Muten (il Genio delle tartarughe), che sarà interpretato dal mitico Chow Yun-fat (Crouching tiger, hidding dragon). James Masters, poi, che molti ricorderanno nella parte di Spike in Buffy - l’ammazzavampiri sarà Lord Piccolo, e alla regia troveremo James Wong, che ha già lavorato per alcuni episodi di X-Files e Millennium. L’uscita del film è prevista per l’aprile del 2009 (info su: http://dbthemovie.com/).
A ruota dovrebbe seguire il film sui Gatchaman (La battaglia dei pianeti), che sarà diretto nel 2009 da Kevin Munroe (TMNT - tenace mutant ninja turtles) per la Warner Bros, “responsabile” pure dell’attesissimo Akira, che vanta la presenza di Leonardo Di Caprio come produttore; quest’ultima pellicola, per la regia di Ruairi Robinson, porterà finalmente sul grande schermo il capolavoro di Katsuhiro Otomo, e si augura possa spianare la strada a progetti “analoghi”, come Ghost in the shell, film basato sul celebre manga di Masamune Shirow i cui diritti cinematografici sono stati comprati dalla giapponese Production I.G.
Prima della fine del 2008 dovremmo vedere il live action fanta-horror di Blood - the last vampire per la regia di Chris Nahon, mentre bisognerà aspettare la primavera del 2009 per uno degli adattamenti più assurdi (e attesi), e cioè Yattaman (Time Bokan),
che vede alla regia quel pazzo furioso di Takashi Miike.
A testimonianza di quanto i live action siano un fenomeno nient’affatto marginale, si aggiunga che un regista del calibro di James Cameron (Titanic) sta lavorando al film di Battle Angel AlitaMatrix si rituffano nella computer graphic con l’imminente Speed Racer, adattamento di un anime del 1978 (Mach 5, di Tatsuo Yoshida) con un cast stratosferico (Cristina Ricci, Susan Sarandon, John Goodman e Matthew Fox). Insomma, i pezzi grossi del cinema sembrano aver trovato una fonte inesauribile di ispirazione (e di denaro).
Sempre nel 2009 arriverà il sequel di Transformers e, ancora in zona “robottoni”, i live action di Voltron e di Robotech, quest’ultimo prodotto per la Warner Bros. da Tobey Maguire, che dimessi i panni da eroe dei cartoni (per i pochi che non lo sapessero lui è il bamboccio che interpreta Spiderman) si mette a produrre film sui cartoni. Roba da psicanalisi.
Poi ci sono i film in fase di lavorazione (quasi un eufemismo visto che in genere ben pochi di questi vedono effettivamente la luce); è il caso, per esempio, di Capitan Harlock, sul cui adattamento cinematografico sembrava stesse lavorando il regista francese Olivier Dahan (in alcuni siti web il film è dato addirittura come già uscito). In realtà pare che non se ne sia fatto più nulla, e oggi le speranze dei fan del “pirata spaziale” creato dal maestro Leiji Matsumoto risiedono tutte nella coreana Eight Peaks, che ne ha acquisito i diritti cinematografici. Speriamo non si riveli l’ennesima bufala. Nel frattempo ci si deve accontentare dell’eccellente cortometraggio realizzato dagli amici spagnoli del sito miguelmesas.com, che con il pretesto di un “fan movie” hanno dato prova di saperci davvero fare.
In forse ci sono pure gli adattamenti cinematografici di Hellsing (un manga di Yukito Kishiro), la cui uscita è programmata nel settembre 2009 per i guru della 20th Century Fox. Poi ci sono i fratelli Wachowski, che dopo
(per la Imagen Films), quello di Pet Shop of Horrors, e di Astroboy, tratto dal celebre manga del maestro Osamu Tezuka, che nel 2009 dovrebbe effettivamente diventare un film per i tipi della Sony.
Un altro progetto congelato da parecchio ma che smuove gli interessi di tanti fanatici è il live action di Neon Genesis Evangelion, l’evoluzione delle serie “robotiche” degli anni ’80, con un’iniezione di tematiche psico-sociologiche ed esistenziali. Roba decisamente più matura tanto per intenderci, perché ormai i cartoni non sono più cosa da bambini! Su Evangelion, che rielabora la saga creata da Hideaki Anno, sta lavorando nientepopodimenoche la Weta, ormai stranota per quanto fatto con Peter “Signore degli anelli” Jackson (maggiori info qui).
Ovviamente non è tutto oro quel che luccica, e se i titoli citati fin qui sono opere di tutto rispetto, va detto che tanti sono i live action tecnicamente discutibili (a essere buoni). È il caso di Fist of the North Star
(aka: Ken il guerriero), che arrivò al cinema già nel 1995 grazie al pessimo adattamento di Tony Randel (che già aveva sondato il terreno “cartonesco” firmando la regia di alcuni episodi dei Power Rangers).
Stesso discorso per City Hunter, diretto da Jing Wong nel 1992 per la Golden Harvest, che perlomeno si segnala per le divertenti coreografie del funambolico Jackye Chan, che nel film indossa i panni del protagonista Ryo Saeba.
E poi un bel pollice verso va a Lady Oscar, un film francese diretto nel 1979 da Jacques Demy e tratto dal manga di Riyoko Ikeda, e alla serie TV tutta nostra Kiss me Licia (1986), con Cristina D’Avena nel ruolo della protagonista.
Va detto che non tutti i live action, soprattutto quelli girati in Giappone, arrivano in Italia, cosa che se in qualche caso ci evita di sorbirci roba “imbarazzante”, in altri ci impedisce di gustare pellicole divertenti e ben fatte (per fortuna esistono i sottotitoli!).
Tra le produzioni destinate (forse) a rimanere circoscritte al mercato asiatico segnalo il film “dal vivo” di Detective Conan, il “giocattoloso” Devilman del 2004, il promettente Death Note e il suo prequel L diretto da Hideo Nakata (Ring), GTO (Great Teacher Onizuka) del 1999, Initial D del 2005, e poi Nin x Nin: Ninja Hattori-kun (in Italia: Nino, il mio amico ninja) diretto da Masayuki Suzuki e tratto dal manga di Fujiko Fujio, pseudonimo dietro il quale si celano i creatori di Doraemon.
Da ricordare sono pure Video Girl Ai, diretto nel 1991 da Ryu Kaneda e tratto dal fanta-romance di Masakazu Katsura, Maison Ikkoku (da noi Cara dolce Kioko) tratto nel 1986 dal soho manga di Rumiko Takahashi, il divertente Cutie Honey (2004), adattamento del celebre manga firmato da Go Nagai, Attack No. 1 (aka: Mimì e la nazionale di pallavolo) del 2005, Una tomba per le lucciole (2005) ispirato all’omonimo OAV di Isao Takahata, il robo-movie Tetsujin 28 di Mitsuteru Yokohama (2005), e ben due adattamenti di Cat’s eyeOcchi di gatto), uno del 1988, l’altro del 1997 per la regia di Kaizo Hayashi.
Continuando a parlare di prodotti a uso e consumo dei nostri amici dagli occhi a mandorla, sono da segnalare quei manga che diventano serie TV, come nel caso di Pretty Guardian Sailor Moon del 2002, della mini serie in tre episodi di Black Jack (2000), ispirata all’omonimo lavoro di Go Nagai, e, nel 2003, di Marmelade Boy (da noi: Piccoli problemi di cuore) di Wataru Yoshizumi.
Tra le pellicole destinate al solo mercato asiatico sembrava destinato anche il buon KasshernKyashan: La Rinascita, appagando i fan del ragazzo androide e del “supercanetrasformabile” Flender, che qui però compare solo come “citazione”.
Per spiegare le ragioni di una così massiccia produzione “cartonesca” nel paese del sol levante va detto che in Giappone quella dei live action è una conquista tutt’altro che recente, basti ricordare che la prima versione di Astroboy, adattamento di un manga di Osamu Tezuka, risale addirittura al 1959, mentre il film su Fantaman, da noi noto anche come Diavolik (e ancora ispirato ai lavori di Tezuka), risale al lontano 1966.
Ancora prima, nel 1960, arriva sui piccoli schermi nipponici la serie TV dedicata al robot-caldaia (per noi: (2004, regia di Kazuaki Kiriya), ma poi il film è arrivato anche da noi con il titolo
Tetsujin 28, del quale abbiamo già ricordato la più recente versione cinematografica, mentre è del 1967 un “precoce” Giant Robot (aka: Johnny Sokko and His Flying Robot) di Mitsuteru Yokoyama, dove si mostra il coraggio e le sperimentazioni di un cinema ancora libero dagli eccessi della computer graphic.
La conclusione è per un progetto tutto italiano creato dai ragazzi del GTgroup, che riguarda una vera icona per almeno un paio di generazioni. Si tratta del prequel del cartone animato di Goldrake, un film in fase di post produzione già da (troppo) tempo, ma che, se i nostri terranno duro, promette davvero bene. Sul sito del GTgroup trovate tutte le informazioni, le foto, le interviste, e addirittura due trailer.
Per ora, ma solo per ora, è tutto. Prometto di aggiornarvi sulle prossime novità, e nel frattempo buoni cartoni a tutti!


martedì 15 aprile 2008

I quindici minuti di Andy Warhol sono finiti

Un paio di vite fa, c’era chi scriveva per il piacere di scrivere, gente del calibro di Henry Miller, che si struggeva per dieci anni sulle carte ingiallite del suo Tropico del cancro (e tra le braccia della bella Anaïs) senza che all’inizio avesse neanche intenzione di pubblicarlo. Non dico che la via dello scrittore asceta sia quella auspicabile, con i ritmi che tutti conosciamo sarebbe anacronistica e impraticabile, però andrebbe quantomeno recuperato il senso dello scrivere, la ragione ultima che ci spinge a coniugare le nostre idee con le parole del vocabolario. Questa ragione non può risiedere esclusivamente nella rincorsa a questo o a quell’editore, come se lasciare la nostra firma su una copertina fosse uno strano modo di marcare il territorio, e neanche nella reinterpretazione in chiave postmoderna del mito di Narciso. L’autocompiacimento e l’egotismo, che a dire il vero sono componenti connaturati in quasi ogni esemplare di “homo litteratus”, rischiano di annichilire il gesto “eroico” dell’inventore di storie, di mercificare e sminuire il romanticismo che pure risiede nell’inchiostro, quando questo è stemperato con il sangue e i sogni di chi scrive.
“Uno su mille ce la fa” diceva Morandi in una canzone, forse peccando addirittura di ottimismo, ma a distanza di anni sembra che in pochi abbiano compreso il significato di quel ritornello, un significato scomodo per chi, oggi, preferisce le parole di quel comico mio conterraneo che recita pressappoco così: “Se ce l’ho fatta io ce la puoi farcela anche tu”. Grammatica a parte il senso è piuttosto chiaro, e paventa momenti di gloria per tutti, forse anche al di là dei miseri quindici minuti previsti da Andy Warhol. La realtà, quella che dovremmo imparare a cercare lontano dai dischi e dai cabaret, ha solo “posti numerati”, solo pochi posti numerati, e tante volte bisognerà accontentarci di assistere da lontano. Non è vero che tutti possono farcela, non è vero che prima o poi ognuno di noi finirà sotto i riflettori, e non è vero neanche quello che profetizzava l’eclettico artista di Pittsburgh: il tempo che ci spetta per essere famosi oggi tende inevitabilmente allo zero.

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giovedì 10 aprile 2008

Ichi the killer: quando la violenza diventa arte

Titolo: Ichi the killer (Koroshiya 1)
Paese, anno: Giappone, 2001
Regia: Miike Takashi
Sceneggiatura: Satou Sakichi (tratto da un manga di Yamamoto Hideo)
Interpreti: Asano Tadanobu (Kakihara), Omori Nao (Ichi), Tsukamoto Shinya (Jijii).


Può la violenza estrema diventare arte?
La risposta è sì, almeno a sentire le parole dell’eclettico Takashi Miike (e dei suoi tanti estimatori sparsi in tutto il mondo). Il geniaccio in questione (la dynamic italia ha da poco lanciato una collana di dvd a lui dedicata, qui la notizia in dettaglio) è tipo dalla telecamera facile, uno che gira un film in un paio di settimane macinando ripresa dopo ripresa a colpi di “one shot”, in altre parole: buona la prima e pedalare (altro che i reiterati ciak a cui sono abituati i filmaker nostrani!). Il risultato, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non è un approccio amatoriale al cinema (ovviamente alla base c’è tanta, tantissima tecnica da parte di tutti i professionisti coinvolti), ma un’adesione quasi maniacale ai fatti, un “tocco ravvicinato” per restare “incollati” alla storia, per seguirla in modo naturale, senza l’occhio ipocrita dei vari neo-neoralismi (memorabile l’ipercinetica scena d’apertura, con la camera che gioca con le catena e i pedali di una bicicletta in corsa).
L’eclettismo di Miike, d’altronde, è ben visibile anche nelle tematiche che affronta (tutte con lo stesso piglio curioso, divertito e sempre dissacrante): lui spazia dal musical horror-demenziale (The Happiness of the Katakuris) al film per “ragazzini” (Zebraman, un supereroe in tenuta da zebra!), dal thriller all’horror senza rinnegare se stesso, senza perdere una goccia del suo stile inconfondibile.
Miike Takashi porta oltre l’insegnamento di John Woo (almeno nel suo periodo Hongkonghese) e affianca le sperimentazioni di Takeshi “Beat” Kitano e di Park Chan-wook (per spostarsi sul vivacissimo versante sudcoreano). Il suo cinema è vivo e sgusciante, proprio come il polpo che si mette in bocca Oh Dae-su in Old Boy, e sono sicuro che continuarà ad agitare i suoi tentacoli per molto, molto tempo.

La storia: Kakihara, l’uomo dal sorriso che va da un orecchio all’altro (letteralmente), è un killer spietato e masochisticamente attratto dal dolore che indaga sulla scomparsa del suo boss. Il primo indiziato per il rapimento sembra sia Ichi un assassino psicolabile dalla personalità multipla, a volte una marionetta nelle mani di uno strano fratello, a volte un supereroe in calzamaglia nera.
La storia è quella del duello, inseguito, agognato addirittura, tra Kakihara e Ichi, due facce della stessa medaglia, due pedine (ma forse la pedina è una sola) sulla stessa scacchiera.

Commento: Ichi the killer è un’opera visionaria, a tratti perversa, acida, viscerale, un film pensato come sublimazione del dolore, un melodramma sanguigno che toglie il fiato e lascia perplessi… piacevolmente perplessi. Se avete storto il naso davanti alla scena dei denti e del martello del già citato Old Boy di Park Chan-wook lasciate perdere questo film, altrimenti cercate tutti i lavori di Miike, potreste scoprire che il tanto osannato Tarantino non ha inventato proprio un bel niente.

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mercoledì 2 aprile 2008

Illusione di immortalità del giovane autore incompreso

Quindi, alla fine dei conti, la ragione per la quale perseverare nell’insana passione dello scrivere non solo è possibile ma è addirittura inevitabile risiede nel fatto che, a costo di sembrare retorico, chiunque prenda in mano una penna per raccontare una storia è convinto di essere un potenziale autore di bestseller. In fondo lo sapete anche voi, lo sappiamo tutti, siamo bravi, siamo i migliori, incompresi forse, ma sicuramente i migliori, anche se gli editori continuano a ignorare i nostri manoscritti e le lettere di rifiuto si susseguono senza soluzione di continuità. Spero che la nota sarcastica nelle mie parole sia sufficientemente evidente, ma se non lo fosse mi permetto di aggiungere che in Italia la percentuale di geni incompresi è inversamente proporzionale al tasso di natalità. Probabilmente preferiamo scrivere libri piuttosto che fare figli.

L’illusione di immortalità, la stessa che anestetizza le paure di un pilota di formula uno, nutre e accresce l’ego del giovane autore incompreso, che anziché rassegnarsi alla possibilità di non essere il nuovo Grisham (tanto per citare uno dei nomi che tirano di più), finisce il più delle volte per trasformare l’incomprensione in rabbia, e la rabbia in rancore, lasciandosi consumare dal nervosismo e da una gastrite fulminante.

Siamo bravi, i migliori, ma siamo ancora più bravi a farci del male, e solo perché non abbandoneremo mai la convinzione che è proprio la nostra voce a mancare nel panorama letterario nazionale. Se venisse meno questa convinzione (quasi sempre sbagliata, se non altro per motivi di probabilità e di casistica) ci sarebbero forse meno aspiranti autori, e più autori “aspirati”, e certamente ci sarebbero meno persone afflitte da gastrite. Il fatto è che l’illusione di immortalità per uno scrittore è il più delle volte un male incurabile, qualcosa di molto peggio di una gastrite, un morbo che ci infetta e ci indebolisce, e che ci rende facile preda delle tagliole, dei trabocchetti, e di tutte quelle cose cattive che ho già descritto.
Se per questo male ci fosse una cura, state pur certi che il numero degli editori in Italia subirebbe un drastico calo, scenderebbe a un quinto, forse addirittura a un decimo rispetto alla cifra attuale, le acque da torbide diverrebbero un po’ più trasparenti, e in giro vedremmo sempre meno squali. E invece siamo tutti malati inguaribili, portatori sani di una piaga che non fa che alimentare, se non i nostri sogni di gloria, quantomeno i portafogli dei tanti editori-proprietari terrieri.